Oggi non scioperano “i giornalisti italiani”: scioperano i superstiti del contratto FNSI–FIEG, una rara specie protetta in via d’estinzione. Due su dieci, per la precisione. Gli altri otto sono troppo impegnati a correre dietro alle collaborazioni non pagate per potersi permettere il lusso di fermarsi.
La FNSI proclama lo sciopero con toni da chiamata alle armi, sventolando il vessillo del rinnovo contrattuale come se fossimo ancora nel 1985. Un rito liturgico più che una protesta: si fa perché si deve, non perché serva davvero a qualcosa. È un po’ come quando si accende una candela votiva: non risolve nulla, ma fa scena.
L’UGL, che almeno sembra aver letto un calendario, ricorda che la professione è cambiata. Una constatazione che per la FNSI suona probabilmente come eresia: “come sarebbe a dire che il mondo è cambiato? Ma noi abbiamo ancora i timbri!”. E così, mentre il mercato editoriale brucia, il sindacato discute come rinnovare un contratto che riguarda una minoranza sempre più miracolata.
Un perimetro sindacale che sembra un museo
Lo sciopero riguarda solo chi ha un contratto collettivo. Quindi: dipendenti, redazioni strutturate, giornalisti “dentro il recinto”. Tutto il resto — cioè la maggioranza — resta fuori. Non per scelta politica, ma perché il sindacato non ha ancora realizzato che ormai i recinti non esistono più.
Il giornalismo del 2025 è un puzzle di freelance, partite IVA, collaboratori, lavoratori ibridi e precari di professione. Il contratto collettivo è diventato una specie di cimelio, come una macchina da scrivere in redazione: emoziona, ma non serve quasi più a nessuno.
I numeri della realtà (che qualcuno continua a ignorare)
Iscritti all’Ordine: oltre centomila.
Giornalisti attivi: una minoranza.
Contrattualizzati: il 19%.
Gli altri? Una massa di lavoratori che devono scegliere ogni mese tra pagare l’affitto o fare un altro pezzo sottopagato. Per loro lo sciopero non è un gesto politico: è solo un giorno in cui si guadagna ancora meno del solito, il che è tutto dire.
Perché i freelance non si sentono rappresentati (spoiler: perché non lo sono)
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Disuguaglianze stellari: un dipendente prende stipendi e tutele; un freelance prende “visibilità”. Indovina chi può scioperare?
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Rappresentanza sbilenca: la FNSI parla tanto di “precari”, ma quando si tratta di tutelarli finisce tutto in un paragrafo a fine mozione.
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Professioni troppo diverse: oggi ci sono giornalisti che fanno video, data journalism, gestione social, progetti digitali. E poi c’è il contratto FIEG, che sembra scritto per chi lavora ancora con la telescrivente.
Una categoria spaccata, ma una narrativa sindacale intatta
La maggior parte dei giornalisti non sciopera perché vive fuori da quel mondo di tutele e contratti. Non possono fermarsi: se rallentano un attimo, li sostituiscono in sei secondi netti con qualcuno disperato abbastanza da accettare 10 euro a pezzo.
La FNSI continua però a parlare come se rappresentasse l’intera categoria. È un po’ come se l’associazione dei proprietari di cavalli pretendesse di parlare a nome di tutti gli automobilisti: tenero, ma scollegato dalla realtà.
L’UGL lo dice senza troppe perifrasi: prima o poi bisognerà affrontare il vero nodo. La maggior parte di chi fa informazione non ha contratto, non ha tutele e non ha un sindacato che si occupi davvero di loro.
Finché le mobilitazioni continueranno a ruotare attorno a un modello di giornalismo che riguarda sempre meno persone, lo sciopero rimarrà quello che è oggi: un evento minoritario, quasi folkloristico, che lascia fuori proprio chi avrebbe più bisogno di una voce.



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