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sabato 11 ottobre 2025

L’estrema sinistra italiana e la cultura del conflitto: perché la pace non è al centro del loro discorso

In Italia, l’estrema sinistra è da sempre legata a un linguaggio politico in cui la lotta è il motore del cambiamento. Dagli anni ’70 a oggi, la dialettica tra “oppressi e oppressori”, “resistenza e imperialismo” e “popoli contro poteri” ha costruito una visione del mondo in cui la pace non è tanto un obiettivo quanto una conseguenza ipotetica della vittoria di una parte sull’altra.

Questa impostazione ideologica spiega perché, anche di fronte a conflitti devastanti come quello israelo-palestinese, molti movimenti della sinistra radicale preferiscano la narrativa della resistenza armata e della solidarietà militante, piuttosto che la ricerca di un equilibrio diplomatico.


Una tradizione che nasce con la “lotta di classe”

La radice di questo atteggiamento è storica. Nella cultura marxista e post-marxista, la conflittualità non è un male da evitare ma un processo necessario alla liberazione dei popoli. Karl Marx stesso vedeva nella lotta tra le classi il motore della storia; Lenin e i teorici del XX secolo ne fecero un metodo di azione.
In Italia, dopo il ’68 e gli anni di piombo, la sinistra extraparlamentare ereditò questa visione: il conflitto come strumento di emancipazione. I movimenti comunisti e autonomi — da Lotta Continua ai CARC, fino a Potere al Popolo — hanno sempre interpretato la politica non come compromesso ma come scontro di forze.

Questa cultura del conflitto si è poi adattata alle cause internazionali. Il Vietnam, il Cile, la Palestina: in ognuno di questi scenari, l’estrema sinistra italiana ha riconosciuto la stessa logica binaria di “resistenza contro oppressione”, identificandosi istintivamente con chi impugna le armi contro una potenza considerata imperialista.


Israele come simbolo dell’“imperialismo occidentale”

Nel caso israelo-palestinese, questa visione si traduce in una polarizzazione estrema. Israele non viene percepito come uno Stato con un diritto alla sicurezza, ma come avamposto dell’imperialismo occidentale.
Le dichiarazioni di esponenti della sinistra radicale e di diversi centri sociali, specialmente dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, hanno mostrato come la condanna del terrorismo venga spesso accompagnata da un “ma” che ne riduce la gravità. “Violenza che nasce dall’occupazione”, “reazione alla colonizzazione”, “resistenza legittima”: sono formule che riecheggiano nei comunicati di collettivi universitari, sindacati di base e movimenti antagonisti.

Il Centro Studi Machiavelli, in un dossier del 2024, ha documentato come vari gruppi della sinistra extraparlamentare italiana — dai Comitati di Appoggio alla Resistenza Comunista (CARC) ai movimenti anti-imperialisti locali — mantengano legami ideologici con la “resistenza palestinese”, e adottino simboli e linguaggi simili a quelli di Hamas o del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).
In queste narrazioni, la pace non è vista come compromesso ma come resa del popolo oppresso. L’unica pace possibile è quella che segue la “liberazione totale”, cioè la sconfitta del nemico.


Il linguaggio della lotta permanente

A differenza della sinistra riformista, che si muove sul terreno del negoziato, la sinistra radicale mantiene una grammatica militante. Parole come “lotta”, “resistenza”, “imperialismo”, “solidarietà attiva” restano centrali nel suo lessico politico.
Anche in assenza di un reale progetto rivoluzionario, la cultura del conflitto sopravvive come identità. Sostenere la “resistenza palestinese” o la “lotta dei popoli oppressi” diventa un modo di riaffermare se stessi come parte di un fronte mondiale contro il capitalismo.
Questo spiega perché i richiami alla pace appaiano spesso retorici o condizionati: la pace è accettabile solo se coincide con la vittoria del “giusto”, non come terreno comune di compromesso.


Il rischio della radicalizzazione simbolica

Molti studiosi notano che questa postura ideologica rischia di trasformarsi in radicalizzazione simbolica.
Secondo l’analista politico Alessandro Giacalone, autore del dossier I rapporti tra la galassia palestinese e l’estrema sinistra italiana (Centro Machiavelli, 2024), “i movimenti comunisti italiani forniscono alla causa palestinese un capitale politico e simbolico, più che materiale”. In altre parole, non esiste una reale capacità di influenzare gli eventi internazionali, ma un’identificazione ideologica che rafforza la propria narrazione interna.

Tuttavia, questa radicalizzazione simbolica ha un costo: allontana il dibattito dalla ricerca di soluzioni concrete e lo chiude in una visione romantica della guerriglia. La pace, in questa logica, non è un valore universale ma un premio da conquistare con la lotta.


Il conflitto come identità

Spesso si sente dire (anche tra militanti della sinistra moderata) che l’estrema sinistra “non vuole la pace”, sicuramente è una semplificazione,  ma è vero che molti dei suoi movimenti non mettono la pace al centro del loro discorso politico.
Per loro, il conflitto resta la condizione naturale del mondo: tra classi, tra popoli, tra sistemi. Finché questa visione perdurerà, ogni negoziato apparirà come un tradimento, e ogni cessate il fuoco come una sospensione della giustizia.
È una cultura che privilegia la tensione alla riconciliazione, la resistenza al compromesso, la denuncia alla costruzione. Una visione che, pur animata da ideali di libertà e uguaglianza, finisce spesso per perpetuare l’idea che solo la lotta eterna possa redimere il mondo.

Danilo Marchetti

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