Viktor Orbán, premier ungherese ormai da più di un decennio, continua a presentarsi come il difensore dei “valori tradizionali” e della sovranità nazionale, ma nei fatti si è trasformato nel simbolo di un populismo autoritario che mina le fondamenta dell’Unione Europea. Dietro la retorica della “democrazia illiberale” — un ossimoro che ormai suona come una presa in giro — si nasconde un sistema sempre più chiuso, dove il potere si concentra nelle mani di pochi, la stampa indipendente viene ridotta al silenzio e l’opposizione politica è soffocata da leggi su misura.
Orbán ama parlare di “indipendenza ungherese” e di “difesa dell’identità cristiana”, ma in realtà usa questi slogan per mascherare un progressivo isolamento del Paese dal resto dell’Europa. Sotto la sua guida, l’Ungheria è diventata un laboratorio di autoritarismo dentro l’Unione: prende i fondi europei, ma nega i principi su cui l’Europa si fonda — libertà, pluralismo, diritti civili.
E mentre finge di difendere i cittadini dalle “ingerenze di Bruxelles”, la sua rete di potere arricchisce solo gli amici del regime e impoverisce il dibattito democratico. Il suo modello politico è un ibrido inquietante tra il nazionalismo nostalgico e il pragmatismo del potere assoluto: nessuna ideologia vera, solo il controllo.
Il paradosso? Orbán resta al tavolo dell’UE nonostante sputi nel piatto da cui mangia — un acrobata politico che sfrutta le regole democratiche per restare al potere e sabotarle dall’interno.
In fondo, il suo messaggio è chiaro: “L’Europa sì, ma solo se fa come dico io.”
Un atteggiamento che ricorda più un feudatario medievale che un leader europeo del XXI secolo.
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